La mostra.
L’Assessorato Cultura e Turismo del Comune di Padova organizza presso il Centro culturale Altinate San Gaetano, dal 23 novembre 2014 all’11 gennaio 2015, la mostra “Renato Mambor – Pensieri nativi”, una grande antologica di circa 70 opere che ripercorrerà le fasi salienti della produzione del Maestro romano fin dagli esordi. Il progetto espositivo presentato da Matteo Vanzan di MV Eventi e Enrica Feltracco vuole essere un omaggio al grande artista Renato Mambor che, protagonista fin dagli anni cinquanta della ricerca nelle arti visive, ha vissuto appieno la stagione di rinnovamento culturale e artistico degli anni sessanta e settanta, dedicandosi non solo alla pittura ma anche al cinema e al teatro. Nato a Roma nel 1936, fu compagno di strada e amico di Schifano, Angeli, Festa, Pascali, Ceroli e Kounellis, ancor più di Lombardo e Tacchi, fece parte dell’ormai famosa Scuola di Piazza del Popolo ed esordì nel ’59 assieme a Tacchi e Schifano alla galleria Appia Antica fondata da Emilio Villa. Per Mambor il principio della serialità è il cardine della propria esperienza artistica, i suoi segni sono ripresi dal mondo massmediatico, sono sagome ridotte ai minimi termini, l’immagine di un’immagine che va appiattendosi in forma di traccia. “Occorre dare atto a Mambor – affermava il critico d’arte Filiberto Menna già nel lontano 1968 – della sua lucidità critica, della sua capacità di condurre una doppia riflessione sulla pittura, una affidata alla pittura stessa, mediante un esercizio raffreddato dei mezzi della rappresentazione che stacca nettamente il segno dal referente, l’altra a un esercizio teorico, a un diario critico che non esiterei a considerare uno dei più lucidi testi di artisti sulla propria opera, e sui processi che presiedono alla costituzione dell’opera stessa”. Mambor, considerato il caposcuola della cosiddetta “neofigurazione concettuale” ha esposto in numerose gallerie d’arte private in Italia e all’estero e sono state allestite mostre personali presso prestigiose istituzioni quali Palazzo Reale a Milano, la Galleria d’Arte Moderna a Roma e Palazzo Tè a Mantova. Alcuni tra i più importanti musei d’arte contemporanea espongono sue opere e di lui hanno autorevoli critici d’arte, a cominciare da Achille Bonito Oliva.
L’artista.
“Avendo vissuto nel clima felice degli anni ’60 avevo tutto e tutti a portata di mano; ho avuto le informazioni più importanti dopo aver visto i quadri di Burri, le ho avute frequentando Fontana, Lo Savio, Castellani, Scarpitta, ed è stato chiaro luminoso e lampante che il quadro si era svuotato da ogni rappresentazione referenziale e che era lì a raccontare se stesso, muovendo la superficie del supporto verso la luce che proveniva dall’ambiente. Quando ho sentito l’esigenza di appoggiare su questa pagina di storia una figura umana ho dovuto inventare una figura bidimensionale” [in Arte&Successo, Maretti & Wilde publisher, Cesena 2002]. Nel ‘59 Renato Mambor (Roma 1936) esordisce assieme a Tacchi e Schifano alla galleria Appia Antica fondata da Emilio Villa. Per l’artista il principio della serialità comunica la propria esperienza artistica, i suoi segni sono ripresi dal mondo massmediatico, sono sagome ridotte ai minimi termini, l’immagine di un’immagine che va appiattendosi in forma di traccia. Indaga gli elementi costituenti il fare pittura, dal telaio al colore, liberando l’opera da uno status di fisicità, di feticcio. L’analisi del simbolo – che non è archetipo ma stereotipo ridotto all’anonimia – è condotta con una pittura di smalti e ducotone mentre sul fondo bianco risaltano le sagome nere nella loro misurata variazione. Riferendosi agli emblemi della civiltà di massa, nascono nel ’61 la serie dei Segnali stradali, nel ’62 gli Uomini statici, nel ’63 gli Uomini timbri e tra il biennio ’64-‘65 i Rebus e i Ricalchi (con i Rebus Mambor esige dallo spettatore la capacità di individuare il nome dell’oggetto anziché precisare l’essenza stessa dell’oggetto – un’operazione linguistica di tipo nominale). Marisa Volpi: “Si potrebbe pensare che l’artista voglia scoprire, senza clamorosi gesti scandalistici, ciò che rimane dell’oggetto, privato di ogni attributo storico della sua apprensione visiva, divenuto simbolo grafico di un aneddoto che non ha più alcun distinto” [cat. La Tartaruga, Roma 1966]. La stessa Volpi annota due anni dopo: “Ora Mambor usa materie e oggetti, non dipinge soltanto, ha ingigantito la tendenza al particolare per il tutto, e ponendo un elemento atomizzato dall’esperienza in un pannello unico lo ha isolato ancor più. Indicandoci la scambiabilità compositiva dell’ordine dei pannelli vuole sottolineare quella mancanza di destino dell’esperienza, di cui si parlava, cioè la sua infinita virtualità in quanto significato” [cat. Galleria Duemila, Bologna 1968]. In quel periodo si serve di rulli da decoratore per un ciclo di tele denominate Itinerari mentre l’idea degli Evidenziatori nasce dalla volontà di “prendere un oggetto d’arte, un segnalatore, una freccia, e di agire direttamente sulla realtà. Anche se poi – commentava l’artista – succedeva che nel momento in cui mettevo l’evidenziatore su un oggetto, nessuno vedeva più l’oggetto ma vedeva l’evidenziatore, come si finisce sempre per guardare il dito che indica la luna più che la luna stessa”. Dai primi Settanta abbandona le arti visive per dedicarsi al teatro ma ritorna a dipingere intorno agli anni Ottanta; mantenendosi sempre su un piano di superficie, Mambor tende a isolare le diverse forme senza apportarvi modifiche, una per ogni quadro, aspetto che lo differenzia dall’accumulo dei primi quadri. Del 1999 è Diario a tempo libero una summa di tutta la sua esperienza figurativa, dagli anni Settanta fino alla fine degli anni Novanta, che concettualmente si rifà al precedente Diario ’67. L’opera “è costituita da elementi verticali intercambiabili, ognuno dei quali presenta un’immagine, un segno tratto da diverse esperienze linguistiche che appartengono sia al passato, sia al presente, che naturalmente al futuro. Una forma di atemporalità o astoricità che non fa coincidere il valore dell’opera con l‘anno di datazione, ma con la relazione di ogni immagine con le altre. […] La lunga opera è quindi immaginata all’infinito, con la possibilità di estrapolarne tre, quattro, o cinque elementi che possono essere composti in sequenze diverse. Ogni particolare separato mantiene la pregnanza dell’intero diario. Le immagini sulle singole pagine sono ritagliate dal paesaggio, terse dal loro luogo di appartenenza ed esposte con il loro solo nome” [cat. Galleria Civica di Modena, 1999]. Attestava Filiberto Menna in occasione della personale alla Galleria La Bertesca di Genova nel lontano maggio del 1968: “occorre dare atto a Mambor della sua lucidità critica, della sua capacità di condurre una doppia riflessione sulla pittura, una affidata alla pittura stessa, mediante un esercizio raffreddato dei mezzi della rappresentazione che stacca nettamente il segno dal referente, l’altra a un esercizio teorico, a un diario critico che non esiterei a considerare uno dei più lucidi testi di artisti sulla propria opera, e sui processi che presiedono alla costituzione dell’opera stessa”.
Come arrivare.