La mostra.
Se Andy Warhol era il re di New York, Roma era di Mario Schifano!
Questo l’incipit della mostra “Pop Art: Perché Roma?” presentata al Museo Civico di Asolo (Tv) dal 17 dicembre 2017 al 2 aprile 2018, excursus su una delle più emblematiche correnti artistiche della storia del Novecento capitanata, in Italia, dal genio indiscusso di Mario Schifano con l’obiettivo di far dialogare le opere dell’arte moderna ospitate nella collezione permanente del Museo Civico con gli smalti grondanti e gli acrilici di un gruppo di ricercatori che venne poi conosciuto come la Scuola romana dell’avanguardia dei pittori “maledetti”. Nato ad Homs (Libia) il 20 settembre 1934 e morto a Roma il 26 gennaio 1998, Mario Schifano è, come lo ricordò Goffredo Parise, “un uomo di trent’anni, di tipo sommariamente mediterraneo, se non arabo. In riposo il suo corpo, alto circa un metro e settanta, del peso di cinquantacinque chili, visto da angolazioni e distanze diverse, rivela anzitutto un languore felino, innocente ed attonito. Come un piccolo puma di cui non si sospetta la muscolatura e lo scatto”; ha esposto in tutto il mondo, partecipando a cinque Biennali di Venezia, di cui una con una sala personale curata da Achille Bonito Oliva; le sue opere sono esposte nei principali Musei nazionali ed internazionali. Considerato a buon titolo non solo uno tra i più grandi artisti del nostro dopoguerra, ma l’unico in grado di diventare personaggio autentico tra Dolce Vita e maledettismo di borgata, Mario Schifano ci ha fatto ben capire che fenomeni come lui non esistono più. Inutile andare a cercarli. Una pittura carica di significato e indissolubilmente legata alle proprie vicende personali (come la crisi esistenziale che lo colpì verso la fine degli anni settanta che superò attraverso il ritorno alla pittura più sfacciatamente materica dei Gigli d’acqua e dei Campi del Pane), nella quale il Monocromo rappresenta solo il punto di partenza per una nuova celebrazione dell’atto pittorico, ora fatto di percezione e realtà; l’opera di Schifano non si esaurisce nell’atto formale del dipingere, ma crea nuove regole d’azione e di pensiero filtrate dall’aggressione verso la tela-diario, monitor concettuale dell’intreccio tra arte e vita.
Il percorso espositivo continua attraverso le opere di Tano Festa, Giosetta Fioroni, Mimmo Rotella, Michelangelo Pistoletto, Franco Angeli, Renato Mambor Aldo Mondino, Mario Ceroli, Lucio del Pezzo, Cesare Tacchi, Umberto Bignardi, Concetto Pozzati e di tutti gli altri protagonisti della Scuola di Piazza del Popolo, offrendo una panoramica di una generazione di artisti che, al Caffè Rosati, discuteva influenzandosi a vicenda raccontando, nella loro purezza espressiva, il cambiamento di un’epoca dove televisione e radio erano il sottofondo tecnologico per la rivoluzione dello sguardo che tutti noi viviamo oggi. Grandi rivoluzionari? Forse sì, forse no, ma sicuramente dopo il loro passaggio, l’Arte non è più stata la stessa.